Sibiu (accento sulla seconda “i”, Sibìu) è stata fondata dai Sassoni Transilvani: si chiama Hermannstadt in tedesco, Nagyszeben in ungherese, e Cibinium in latino. La “Villa Hermanii” prende il nome da Hermann da Norimberga nel 1160, che le ha dato, appunto, il nome germanico di “villa”, inteso come “città” (“stadt”).
La Transilvania è una provincia storica in cui si formò il nucleo del popolo romeno. Fu qui il centro dello stato dacico, che aveva la capitale nella città di Sarmisegetusa, dove i conquistatori romani vi stabilirono il loro centro amministrativo dei territori che occupavano, ai primi del secondo secolo dello scorso millenio, dopo le guerre contro i Daci. Alba Iulia è la città in cui il 1° dicembre 1918 veniva compiuta l’unione della Transilvania alla madre patria, realizzandosi in tal modo lo stato unitario nazionale romeno entro i suoi confini naturali. La Transilvania è stata sotto gli Asburgo, integrata nel regno d’Ungheria. Dopo la Prima Guerra mondiale (1920) fu unita alla Romania, che la perdette di nuovo a favore dell’Ungheria nel 1940, per riacquistarla nel 1945.
Come svariate città in Romania, e non solo, la città di Sibiu è composta da una parte “di sopra” (de Sus) e da una “di sotto” (de Jos). Questa duplicazione si ritrova nelle due piazze principali: la Grande e quella Piccola.
L’impressione generale che si trae dalla città è meno “transilvanica” di quanto non si pensi. Le colline che circondano la città, come già detto altrove, sembrano trovarsi nella campagna romana. I rilievi sono dolci, il fiume scorre sinuoso e con una certa pacatezza. Non sembrano certo le terre di Dracula; i Carpazi, in lontananza ricordano piuttosto l’Appennino umbro-marchigiano. L’atmosfera è bucolica, agreste, quasi ovattata.
La cittadina è, al momento, tutta un cantiere: ristrutturazioni, consolidamenti, puntellamenti, pavimentazioni. Immagino già il risultato: un centro storico da presepe vivente. I tetti spioventi e scuri, gli abbaini ondulati a forma di palpebra, conosciuti come “gli occhi di Sibiu”, l’unico piccolo vezzo per un’architettura semplice, essenziale, ma non banale. La passeggiata in città è piacevole, i suoi edifici pastello la fanno somigliare a una piccola Praga, i suoi imponenti bastioni la circondano come una morbida coperta, rendendo la sua forma simile a una donna in posizione fetale, un po’ grassottella, circondata da un piumino danese. Sembra di essere ovunque ma non in Transilvania o in Romania, tanto meno in Germania e neanche in Ungheria. Sibiu è la cittadina europea per eccellenza, potrebbe veramente trovarsi ovunque in Europa, è universale, una sorta di passe-partout, chiave epistemologica dell’Europa medioevale.
La presenza di numerosi studenti universitari la rende molto simile a Urbino o a Siena, un piccolo centro dove lo studio si unisce al tempo libero, rendendo piacevoli entrambi.
I ragazzi di oggi ben ricordano le atrocità della dittatura di Ceausescu, l’uomo cattivo che ha rabbuiato la felicità della loro infanzia e che ha vigliaccamente rubato loro la spensieratezza. Durante i racconti degli episodi più oscuri i loro occhi si fanno sottili e penetranti, spauriti e arrabbiati, la voce assume un crescendo di volume, le parole divengono concitate, strozzate, sibilate in faccia all’interlocutore, il viso si stringe in una morsa di odio profondo, il respiro affannoso rende meglio di qualsiasi altro gesto il senso di oppressione di quegli anni atroci. Anche la persona meno emotiva non può non provare un lungo e persistente brivido lungo la schiena di fronte agli episodi che raccontano con una fluidità incredibile. Si vorrebbe fuggire di fronte a quello che si è indelebilmente fissato nella memoria di questi ragazzi, ma l’altro ti inchioda, ti costringe ad ascoltare, a capire, a ricordare insieme a lui. Sembra di essere in mezzo a una tromba d’aria, il vento delle parole si fa teso, a raffiche, poi violento; spazza via con violenza tutti gli agi e le certezze in cui siamo vissuti finora. Arresti, pestaggi, sparatorie, morti, sparizioni. Ogni famiglia ha il suo dramma, il suo incubo, i suoi affetti tranciati via o, se è andata bene, sfregiati da quell’uomo da nulla, il loro piccolo e mediocre Hitler che con la sua impresentabile moglie ha condiviso una fine degna della sua statura morale. Il mio giovane interlocutore non ha neanche le lacrime per piangere le sue attese notturne per un po’ di latte, per i termosifoni accesi poche ore al giorno durante il rigidissimo inverno, per la sottomissione a un regime oscurantista e folle, per il sogno di un mondo normale sempre negato, per aver vissuto in un mondo talebano ante litteram. In Romania il tempo si divede in “Prima” e “Dopo” la Revolutia, quella vera, quella che ha cacciato via l’orco cattivo che portava il nome di Babbo Natale, ovvero Nicolae, figlio di contadini che ha conosciuto la galera per una decina d’anni, che ha spadroneggiato dal 1967 al 1989, data della violenta rivolta di Timişoara. “Prima” era il buio, l’incubo, il tunnel nero e senza fine in cui il Conducator ha cacciato l’intero Paese, costruendo una sorta di reggia a Bucarest, con saloni di migliaia di metri quadri di ampiezza ciascuno, i rubinetti d’oro, scintillanti cristalli, rutilanti specchi e ogni sorta di lusso. Alla faccia del popolo che crepava di stenti, di freddo, di botte o per le sommarie esecuzioni.
Dopo la tempesta, esce il sole, il viso dell’altro si rischiara, un gesto rapido e stizzoso della mano invita a cambiare argomento, non con cattiveria, ma con una decisione più levantina che balcanica. Il sole risplende, il vento è cessato. Ma i danni del fortunale sono tutti intorno e, soprattutto, dentro di me. È difficile sostenere lo sguardo di chi ha visto la morte in faccia, di quella stessa persona che ora è avida di vivere, di godere di ogni respiro, di ricevere ciò che gli è stato ingiustamente negato. Quella stessa persona che ti vede come un padreterno, come qualcuno che è di gran lunga più fortunato di lui, tu che sei in Italia, il Paese più bello e tra i più ricchi del mondo! È molto difficile fargli capire che l’Italia è sì bella, ma che racchiude molte complicazioni che in Romania possono sembrare assurde. Questo è sicuramente un punto difficile su cui andare d’accordo. Le movenze si fanno più distese, il volto incarna ora un forte attaccamento alla vita. Ogni parola è accompagnata dalle mani che sembrano voler sollevare delicatamente il significato di ogni frase come fanno i bambini quando tentano di portare in alto le bolle di sapone, sfiorandole con le palme delle mani rivolte verso l’alto. Ogni atto del corpo, soprattutto quelli femminili, è particolarmente studiato, dura a lungo, è sinuoso. I segni extra-linguistici sono molto importanti in tutta l’Europa orientale, ma molto marcati in questa terra: ogni gesto della mano, ogni flessione del corpo, ogni alzata di ciglio, ogni scrollata di spalle, tutti questi gesti sono delle vere e proprie integrazioni del discorso parlato. In questo lo straniero si distingue, nella mancanza di gestualità, nel concentrare tutta la comunicazione nella voce. La lingua si può imparare, il rumeno è un idioma neolatino, ma l’atteggiamento è irrimediabilmente segregato all’interno del patrimonio genetico di questa gente. Che ci ama, ci adora, ci idolatra, nonostante le cattiverie che qualche volta le rivolgiamo. Loro ci conoscono tanto bene quanto noi non li conosciamo affatto.
È venuto il momento di avvicinarci alla Romania, con calma, con dolcezza, con serenità, per apprendere, per capire e, non ultimo, per ricambiare, almeno in parte, il grande affetto che i rumeni nutrono per noi. Glielo dobbiamo, a ciascuno di loro.
martedì 5 ottobre 2004
2a puntata — Da Bucarest a Sibiu
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