martedì 26 agosto 2008

Bosnia: Mostar

Mostar potrebbe assomigliare a Ponte Vecchio in quanto a toponimo. Forse esiste un centro che si chiami così in Italia. Sicuramente è il ponte per eccellenza di Firenze. È la città dell’Antico Ponte (Stari most), decisamente rimodernato dopo che la guerra civile l’aveva spazzato via a suon di bombardamenti. “Never forget” c’è scritto in una lapide appoggiata su un muro del centro. Come dimenticare gli effetti delle mitragliate ancora in bella vista sui muri delle zone semicentrali? Eppure, questa città ingenua e sospesa, ha grinta e voglia di vivere da vendere. Discreti locali con musica a tutto volume costellano il centro storico, a cui si potrebbe accedere in auto se delle volenterose cameriere acchiappa-clienti non segnalassero al forestiero che non si circola nei vicoli. A che servono dei cartelli con delle persone così gentili?
La Bosnia sembra essere una sorta d’intestino croato, dove tutto è decisamente lontano, confuso e stravagante: in mezzo alla campagna, tra case semplici e sparse sul territorio, appaiono ogni tanto portentosi hotel a cinque stelle. Non è chiaro chi e perché dovrebbe alloggiare in strutture così confortevoli in mezzo al nulla. La tipica casa bosniaca è semplice: anche la ringhiera di un balcone appare come un ammennicolo a cui si può rinunciare, basta fare attenzione a dove si mettono i piedi. Per contro, lo stile alberghiero bosniaco è eccessivo, colorato, leggermente pacchiano. Non nel senso “arabo” del termine. Piuttosto in Bosnia si ostenta una certa — presunta — qualità nel costruire manufatti di una qualche pretenziosità. Neum è tutta così, una specie di Sorrento dalla vista sul mare strozzata da un lunghissimo lembo di Croazia. Alberghi coloratissimi e zeppi di stelle, quasi a formare una Montecarlo in salsa balcanica. Le persone stesse sono allegre, reattive, anche se sembrano vivere con una sorta di orgoglio misto a senso di inferiorità nei confronti dei loro vicini croati. Eppure hanno parecchio in comune i due popoli, a partire dallo stile di guida vagamente suicida con il quale conducono i propri mezzi a destinazione, talora in fondo a una scarpata delle superstrada adriatica, priva com’è dei parapetti nei punti più pericolosi. Ma non fate mai notare a un bosniaco la benché minima rassomiglianza con un croato e viceversa. Qualcuno, dall’altra parte del mare, vi dirà con disprezzo che i ćevapčići sono bosniaci e non croati. Inutile sottolineare che sono diffusi anche in Italia e Austria. È un po’ come la storia del caffè turco che in Grecia diventa caffè greco.

Mostar è incantevole, non v’è dubbio. Pulita, ordinata, tranquilla, piena di giovani. Pur non somigliando a nessuna delle città italiane, ha un suo stile simil-veneziano, un po’ come le altre città dalmate. La comunità musulmana è ben integrata: moschee e chiese convivono tranquillamente. Donne velate e ragazze discinte si ritrovano nelle stesse vie, tollerandosi a vicenda. Non sembra esserci tensione, tutt’altro. Nonostante i campi di concentramento croati per i musulmani di Bosnia del 1993, l’atmosfera è serena, come se il tempo si fosse fermato da un po’. Qualche auto targata Belgrado o Zagabria appare timidamente qua e là parcheggiata in strada, restando incredibilmente intatta. I bosniaci non dimenticano, ma non sembrano essere vendicativi.
La posizione sulla Neretva, l’azzurrissimo fiume che taglia in due la città, e le montagne che la circondano ricordano vagamente Firenze, così come il succitato Ponte Vecchio, le bancarelle e il fatto stesso di essere così raccolta. Decisamente una Florentia balcanica, dallo stile architettonico omogeneo e perfetto.

Gli abitanti di Mostar sono decisamente intraprendenti. Oltre alle botteghe di artigianato vario, c’è un ragazzotto che gira col solo costume da piscina organizzando una piccola colletta a favore degli spettatori che lo vedranno gettarsi nel fiume. Il ponte è altissimo, 24 metri. Il fiume è gelido e non abbastanza profondo e largo per garantire un tuffo in sicurezza. Eppure il giovane cammina baldanzosamente fuori dal parapetto tenendosi con una mano. Se scivolasse da quella posizione, cadrebbe in una parte di fondale non abbastanza profonda del fiume. Per di più, non avrebbe il tempo di tuffarsi con una postura adatta a mitigare l’impatto con l’acqua. Ma tant’è, il rito inizia. Raccolti dei fondi ritenuti sufficienti dal socio che resta all’asciutto, va a bagnarsi con un tubo verde appoggiato appena fuori dalla torre Helebija, tanto per acclimatarsi. Poi, scalzo, procede verso la sommità del ponte. Silenzio. Concentrazione. Si rannicchia in una posizione quasi fetale, lascia il sostegno del ponte e si getta piegato a metà e braccia aperte, forse per frenare un po’ la sua caduta. Un urlo soffocato del pubblico segue la sua velocissima caduta. L’entrata in acqua avviene dopo due secondi circa a una velocità non inferiore a 20 chilometri orari. Un istante prima dell’impatto richiude le braccia con forza per creare una contro-spinta che gli consenta di non sprofondare troppo. Credo che sfiori comunque il fondo, che non dev’essere superiore a 15 metri. Il giovane riemerge soddisfatto, ora è un vero uomo. E un po’ più ricco di qualche euro. Pronto a un nuovo tuffo.

lunedì 25 agosto 2008

Ancora in Dalmazia: Dubrovnik (Ragusa).

Descrivere che cosa sia la Dalmazia non è compito agevole. Siamo in Croazia, in Italia o dove? Korčula o Curzola? Spalato o Split? Brač o Brazza? In effetti la travagliata storia di questa parte d'Europa somiglia un po' alla storia di dominazioni che si sono succedute sul suolo italiano.
La Dalmazia è sicuramente una parte d'Italia, anzi di Venezia, che già dall'anno Mille dominava l'Adriatico. L'architettura dalmata rivela inequivocabilmente veneziana.

E proprio dai monumenti, dalle chiese, dalle piazze di Dubrovnik che parte questo viaggio in una sorta di macchina del tempo, che ci riporta ai fasti veneziani. Lo Stradun, lisciato ma intatto nei secoli, abbacina col suo candore antico e riecheggia le grida dei mercanti di allora come oggi le insegne al neon assolvono alla funzione pubblicitaria. Anche l'antica Epidauros ha vissuto le invasioni straniere: illiri, greci, romani, ottomani, veneziani, ungheresi, austriaci, francesi, montenegrini. A causa (o grazie) al terremoto del 1667, che la rase completamente al suolo, Ragusa rinacque dalle proprie rovina più bella che mai, ma sempre oppressa dal dominio straniero. Pensare che questo gioiello architettonico deriva dal suo antico nucleo, Ragusavecchia, (Cavtat in croato, che deriva, a sua volta, da Civitas vetus). Facile l'associazione Ragusa-Dubrovnik, Ragusa in Sicilia, Civitavecchia: tre città legate dal toponimo e dalla storia alquanto travagliata.

Passeggiare sul selciato bianchissimo e morbido di Dubrovnik è un'esperienza sensuale. Verrebbe voglia di camminare scalzi. Il piede sembra accarezzare la schiena perfettamente liscia di una donna sdraiata. Non solo gli arti inferiori sono distratti da tanta bellezza. È l'architettura pressoché perfetta di questa città-bomboniera che satura gli occhi del viaggiatore. Bifore, tetti, mura, strade, vicoli, balconi. Ogni elemento architettonico è perfettamente incastrato come in un gigantesco gioco di costruzioni per bambini. La materia e il disegno della ex-Ragusa le conferiscono un inestimabile valore. Difficile concepire quanto coraggio – o menefreghismo – abbiano avuto i montenegrini a bombardarla durante la guerra del 1992. Se la Serbia non ha avuto pietà per Mostar, figuriamoci che soddisfazione dev'essere stata la semidistruzione di Dubrovnik!

La città, racchiusa fra poderose mura, vive in una dimensione tutta sua, quasi che la sua storica autonomia sopravviva ancora in qualche modo. Le immancabili botteghe sono più discrete che a Spalato, i souvenir made in China non sono così copiosi da offendere la nobile grazia ragusana. Perfino l'invasione dei turisti viene arginata dalla cinta muraria, lasciando traffico e incroci congestionati all'esterno. Gli abitanti sembrano parlare sottovoce, non ci sono mestieri chiassosi o grida da mercato.
Sarà per l'umidissima afa estiva, ma l'atmosfera è sospesa in un mondo onirico. Una piccola Venezia asciutta, bellissima, ludica, dove a ogni passo si vive all'interno di un'esperienza sensoriale completa e multidimensionale. Una droga buona che riempie il cervello. L'opposto del kitsch delle architetture dei moderni centri commerciali, che cercano invano di replicare la superba magnificenza della piazza italiana, coi suoi negozi, i servizi, gli spazi pubblici.
Ragusa la Bellissima resta tuttora irraggiungibile.