Dopo il bellissimo ma asettico hotel Ibis, eccomi sul mezzo di locomozione per eccellenza: il treno.
L’impatto è forte, anche in prima classe; un viaggio adatto a persone certamente poco schizzinose. Dimenticate l’Eurostar, ma anche il diesel Pescara-Chieti. Solo l’onnipresente telefonino riporta le lancette dell’orologio avanti di sessant’anni.
La prima impressione è quella di un Paese che si stia svegliando all’improvviso, quindi con una certa irritazione, da un lungo sonno. Alcune persone venderebbero l’anima per avere tutto e subito di ciò che è stato loro negato per lunghissimi anni. E c’è da giurare che l’abbiano già venduta, la loro anima, senza però ottenere quello che speravano. Altri sembrano essere pervasi da un misticismo intriso da cristianesimo ortodosso, animismo e chissà quale altro rito dell’antica Dacia. Un Paese composto da persone oscillanti, che rasentano lo schizoidismo nel voler mostrare la propria ricchezza e le proprie povertà. Perché queste ultime sono numerose, la ricchezza è una sola. Spesso non quantificabile con la moneta, ma costituita dalla grande magnanimità di questo popolo.
È la prima volta che provo la forte sensazione di essere straniero, pur non indossando alcun abito, né compiendo gesti tali da far supporre la mia origine. Dev’essere lo sguardo, il modo di camminare o chissà che cos’altro. Non mi sembra di essere così differente dal resto della popolazione. Il fatto più notevole resta lo sguardo talvolta inquietante che le ragazze mi rivolgono: occhi fermi, sicuri, perentori e anche un po’ interrogativi. Sembrano voler sottolineare il fatto che quello sguardo sia proprio rivolto a me. Minaccia? Promessa? Credo di aver trovato una risposta nella biologia: la funzione protettrice dell’uomo nei confronti della sua famiglia. Forse è proprio questa caratteristica che la ragazza rumena reclama dal suo protettore, effettuando, in maniera più diretta, la stessa selezione che il maschio effettua per scegliere la sua compagna. Chissà. Non ho trovato nessuna risposta convincente, neanche in seguito. Gli sguardi dei profondi occhi neri restano un grande mistero, insoluto per ciò che mi riguarda.
Il treno procede in mezzo alle sterpaglie come se funzionasse con il pilota automatico, sempre alla stessa, lenta ed esasperante velocità. Il finestrino dello scompartimento resta aperto finché la mia vicina, una ragazza che si è fatta bella per incontrare il suo fidanzato lontano, non decide che è troppo freddo. Così lo chiude. C’è un tanfo di vino misto a olio per ingranaggi, qui dentro. Il treno somiglia vagamente ai modelli italiani degli anni Sessanta del secolo scorso, con qualche rifinitura in meno.
Ho due pensieri che mi arrovellano al mente e tutti e due iniziano con la stessa frase: “Come dev’essere…” Mi domando quanto sia rigido l’inverno da queste parti e quale dovesse essere l’atmosfera al tempo della dittatura. Non oso immaginare la combinazione delle due disgrazie! Il mio vicino afferra una bottiglia, l’etichetta “Bergbier” non lascia spazio a dubbi circa la bevanda: un litro e mezzo di birra. La vedesse un cittadino di Sua Maestà… Il signore in questione, nel silenzio totale degli astanti, trae cinque profondi sorsi e la chiude. Non sembra particolarmente soddisfatto della “piccola” bevuta. La donna che siede accanto, che sembra sua moglie, lo guarda senza parlare, facendo intendere che avesse commesso una qualche scortesia. Lui chiede con un monosillabo, che piuttosto definirei un mugugno, il motivo dell’occhiataccia. La donna gli risponde, le palpebre socchiuse, con una mezza smorfia che dovrebbe significare che il discorso è chiuso lì. Successivamente la donna ritiene di dover bere anche lei, visto che il ghiaccio è rotto. Una scena incomprensibile, forse suscitata dalla mia presenza che sembrava imbarazzare notevolmente i presenti, visto che stavo prendendo appunti, evidentemente basati sulle impressioni che traevo da loro stessi.
Il treno effettua una fermata in una stazione senza nome, caratteristica che non manca nel resto della rete ferroviaria rumena. Anche a Bucarest in metropolitana ci si sente ciechi, vista la mancanza di segnalazione delle stazioni. Il Paese non è pronto ad accogliere dei turisti veri e propri e non lo sarà finché non ci saranno dei cartelli che segnalino almeno i luoghi più importanti. È proprio il mio primo viaggio da viaggiatore, per di più in Europa.
Ripenso alle due ragazze che sono venute a prendermi in aeroporto: Gabriela e “l’altra”, di cui ho dimenticato il nome. La prima, loquacissima, con un apparente desiderio di far bella figura a tutti i costi. L’altra è più mite, decisamente meno nella guida. Gabriela parla come un fiume in piena, anzi come un nervoso torrente che si getta con irruenza in mare. Le parole fuoriescono a tratti, nervosamente, interrotte da squillanti risate, talvolta così profonde che la sua esile corporatura ne viene completamente scossa. Arrivata al punto di tossire interrompe la sua ilarità e torna seria seria. Dopo una mezz’ora decide che è meglio togliersi gli occhiali, forse per rendersi più simile alla fortunata gente rumena che sembra essere immune ai difetti visivi. Pochissimi indossano degli occhiali da vista e non credo che le lenti a contatto siano così diffuse, visto il costo e la facile sostituibilità con dei più economici occhiali.
In tutti i paesi dell’Europa Orientale che ho visitato la percezione del pericolo è molto diversa dalla nostra. Agli occhi dei “levantini” dovremo sembrare dei paranoici. Perché non poter prendere il treno in corsa, perché chiudere le porte, perché non poter attraversare i binari o, ancora, perché utilizzare delle esagerate precauzioni? Sono solo alcune dei tanti interrogativi che in Romania non ci si pone.
Questo Paese sembra trovarsi in quella fase del risveglio in cui non tutto il cervello è ancora in piena attività: gli occhi socchiusi, i pensieri opachi e, soprattutto, una grande e attonita domanda: “Ma che ci faccio io qui”? Gli occhi dello straniero vedono in maniera diversa le stesse cose; è forse questo che fa la differenza ed è per questo che egli trae delle impressioni forti dei Paesi che visita. In questo momento mi sento un po’ il giudice di un intero popolo di cui dover analizzare ogni singolo gesto. Ancora ho capito poco.
Una ragazza si sporge dal finestrino del treno di fronte e mi urla qualcosa che non riesco a capire. Avrà sì e no diciassette anni, ma il coraggio non le manca. I suoi occhi, per pochi secondi, mi guardano, anche se sembrano piuttosto toccarmi, quasi schiaffeggiarmi. Accompagna le sue parole con un sorriso di chi la sa lunga.
Il treno riparte, scorre un paesaggio che somiglia alla campagna romana senza vestigia: rovi, erba verdissima puntellata da esili e torreggianti erbacce; pioppi; olivastri, almeno così sembrano; acacie; e una gran quantità di alberi a foglie cedue. Il tutto per la maggior parte incolto. Una sorta di infernale paradiso, un po’ monotono. Ogni tanto, vicino le città, qualche fabbrichetta che sembra abbandonata, ma che è in funzione, sia pur a modo suo. Con buona pace degli ecologisti abbondano gli scarichi e le strutture strabordanti di amianto. Il cielo è limpido, sembrerebbe l’inizio di settembre sulle colline del Centro Italia. Invece siamo nella Romania più interna e profonda. Povera ma bella, come le sue donne.
martedì 5 ottobre 2004
1a puntata — Da Bucarest a Sibiu
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