mercoledì 20 febbraio 2008

Mio padre: ieri, oggi e, forse, domani

Chi era davvero mio padre?
Non ho mai avuto la sensazione che amasse la vita se non in funzione della propria famiglia ieri e di quella mia e di mia sorella negli ultimi tempi. Mai uno svago o un momento tutto per sé: la felicità andava condivisa con i propri cari. Antonio era certo uno stravagante uomo all'antica, che aveva poco del calabrese e pochissimo del romano. Sembrava essere nato in una città della Mitteleuropa ottocentesca. Tra i personaggi del mondo dello spettacolo a cui assomigliava maggiormente sceglierei senz'altro Raimondo Vianello, anche se decisamente meno sorridente. Il suo motto, mai apertamente dichiarato, è stato quello del “lavare i panni sporchi in famiglia”. In pubblico ha sempre osannato le doti dei propri figli e della famiglia in generale, talora esagerando un po'. In casa la rigida impostazione educativa – non a caso era maestro, almeno sulla carta – rasentava le intransigenze della mentalità tipica del mondo calvinista. Negli ultimi tempi la dicotomia pubblico-privato dei suoi atteggiamenti era divenuta molto bizzarra, a tal punto di guadagnarsi il soprannome di duce. Restano memorabili i suoi appelli al rientro serale alle “undici e tredici” e l'intolleranza al mio eccessivo umorismo. L'unica cosa certa era il suo smisurato amore per i suoi nipoti, da cui sopportava qualsiasi gesto anche quelli meno educati. Si arrabbiava e molto, ma accettava il gioco delle parti. La maggior parte dei suoi pensieri è stata un mistero, ormai custodito per l'eternità. Spesso non capivo, dal suo sguardo, a che cosa realmente pensasse. Non posso non citare il giorno della mia laurea, quando, alla fine della seduta, mi ha chiesto: “Quanto hai preso”?
“Centodieci. Ma senza lode”.
Quell'ultima definizione deve averlo gelato. La lode, che bella parola... Invece nulla.
Non aveva approvato la scelta della facoltà. Avrebbe stravisto per un figlio avvocato, un azzeccagarbugli che si sarebbe potuto districare in mezzo a un mare di gentaglia di questa Italia truffaldina e mediocre. Per non parlare del medico, un personaggio degno di altissimo rispetto. Lingue straniere, ma non sarebbe stato meglio entrare in banca? Almeno questa soddisfazione l'ha avuta. Ma per mia pura sfortuna.
Quand'era più giovane, cercava di godersi la famiglia, soprattutto i figli, in qualsiasi momento libero. Al rientro del lavoro, dopo aver lasciato la mamma Banca che tanto gli voleva bene, entrava in casa e, da buon musulmano – non avevo detto calvinista? – iniziava i suoi lunghi lavacri serali. Ricordo che, come ogni pargolo con suo papà, guardavo incantato mentre si sbarbava. O mentre fumava. Sì, perché fumava! Secondo me faceva finta, come mia madre d'altronde. Non aspiravano il fumo, cioè non lo mandavano “giù”. Accendevano due o tre sigarette al giorno per darsi un tono, come faceva Alberto Sordi – e Vianello? No, lui non fumava –, forse per distinguersi nel proprio status sociale di piccolo borghesi, che potevano permettersi l'acquisto di un pacchetto. Per capire a pieno questo concetto bisogna immedesimarsi nel periodo storico degli anni Settanta, dove ancora si parlava di “miseria”. Il pacchetto di sigarette marcava il confine, così come l'auto a cambiali e il frigidaire (altrimenti detto frigor) o la TV con quattro canali, il netto confine tra la miseria e la tranquillità borghese, per quanto “piccola” potesse definirsi.
Il sabato e soprattutto la domenica erano i giorni dedicati esclusivamente ai figli. La moglie ai fornelli e i figli caricati in auto verso mète sempre uguali negli anni. Anzi, ne ricordo solo una: il lago di Castelgandolfo. Andarci tutte le domeniche me lo ha fatto detestare. Antonio era un po' ossessivo nei viaggi: stessa spiaggia, stesso mare. Detestavo anche il famoso stabilimento balneare “M.G.G.”, quello del Ministero di Grazia e Giustizia. Troppo caldo, noia, sabbia appiccicosa. E un mare non proprio stupendo, tranne quando era scosso dai “cavalloni”. Con gli amici di lui che giocavano sempre a carte a “Bestia”. Urla, insulti e tutta la spiaggia che guardava schifata questa bisca composta da una ventina di persone che se ne dicevano di tutti i colori sotto gli ombrelloni. Soltanto un a tromba d'aria è stata in grado di farli smettere di giocare per una buona mezz'ora. Credo che le carte fossero arrivate fino in Sardegna! Eppure, gli amici del mare gli hanno regalato una targhetta in bronzo per il suo diploma, così orgogliosi di tanta fatica ricompensata e lieti di poter avere al tavolo un neodiplomato da spennare. A loro vedere.
Il tempo delle vacanze era la gioia più grande per noi. Non si andava al mare, ma, da buon mitteleuropeo, in montagna. Come dimenticare le partenze alle quattro di mattino con un'auto stracarica di bagagli? E il ritorno alle due del pomeriggio di agosto, sotto un caldo indescrivibile.
Il suo entusiasmo per le attività dei propri figli era ardente. A un certo punto si era improvvisato istruttore di ginnastica a casa in corridoio e, da buon giapponese – non s'era detto né calabrese né romano? – iniziava a illustrarci degli improbabili esercizi di stretching ante litteram. Non si vergognava quasi di nulla e questo poteva costituire un problema insieme alle piccole e grandi stranezze con cui talvolta condiva la sua e la nostra esistenza.
Antonio viveva nel suo mondo, il piccolo mondo del piccolo borghese, con le sue piccole soddisfazioni, i suoi piccoli momenti unici. Eppure aveva vissuto un'infanzia tremenda, tra guerra, fame, miseria. Ha visto soffrire e andar via due sorelle a causa della stessa malattia che lo avrebbe colpito in maniera molto più violenta. La sua vita è stata una lieve parabola ascendente, con dolci curve di alti e bassi e una brusca discesa verso la fine. I media ci hanno illuso che a settantanni si è giovani. Non che lui si sentisse vecchio, anzi: negli ultimi tempi ballava, passeggiava, viaggiava, leggeva più che mai. La sua condotta è stata comunque esemplare in tutti i suoi anni. Una casa, un'auto, un gatto per qualche anno, due figli, la scuola, i nipoti... Una vita normale, quasi piatta, felice, serena. In un mondo che ha accelerato di giorno in giorno le sue follie.
Una vita ideale, fino a quando qualcuno delle sue cellule ha deciso di cambiare qualcosa della propria vita. Queste piccolissime parti malate del suo corpo ci hanno consegnato un padre spaventato, folle, accecato, allucinato, scoordinato nei pensieri e nelle azioni. Una persona che vive in un mondo sconclusionato, per sua fortuna, e senza la piena consapevolezza di quello che accade. Come posso dimenticare i suoi pianti angosciati, lo sguardo terrorizzato, la fatica del cuore che batteva inesorabilmente destinato alla fine? Non sapremo mai se il morbo lo avesse obnubilato prima di ucciderlo, se avesse avuto pietà di lui rendendolo inconsapevole della degenerazione che partiva dal suo cervello. L'organo senziente per eccellenza che non comprende più quello che accade proprio al suo interno. I medici ci hanno forse illuso affermando che non avrebbe potuto accorgersi quasi di nulla? Come giustificare i due segni della croce? L'agitazione nel vedere i parenti intorno a sé? La sofferenza espressa fintanto che è riuscito a parlare? Il panico assoluto richiedendo la stretta vicinanza della moglie e dei figli? E la tremenda “ultima comunicazione” che non è riuscito a esprimermi? Che cosa avrebbe voluto dirmi?

Del suo essere restano i ricordi, i rimpianti, le soddisfazioni, gli attestati di stima. E il baratro di chi è ancora in vita. I sogni così suggestivi, gli incubi, la sua voce che risuona nelle orecchie, i risvegli angosciati dalla piena consapevolezza della fine. Le fotografie che hanno fissato l'esatto centesimo di secondo in cui tutti eravamo lì, a ridere, scherzare, a goderci l'esistenza. Quella che era l'esistenza di Antonio è oggi impressa in un negativo, in un file, in una stampa, nel frammento di un video. Restano le carte, quella enorme quanto inutile mole di documenti che amava collezionare in abbondanza. Da riordinare, catalogare e, soprattutto, gettare.

Che cosa dirò a mia figlia di suo nonno? Inizierò con gli episodi più divertenti, descriverò la rigida educazione ricevuta che per lei sarà assurda anche solo da concepire. Rivivrò i suoi momenti di gioia di quando mi aveva fra le sue braccia, sballottando mia figlia a mia volta, rimirandola incantato dai suoi occhioni azzurri. Andremo in un museo a vedere una “128”, l'incredibile auto con cui una famiglia di quattro persone (per tacer del gatto) si recava in villeggiatura.
Non sarò un amico per lei come Antonio non lo è mai stato con noi. Ma solo una guida, che suggerisce, consiglia, corregge e, soprattutto, infonde fiducia.
Questo mi ha dato Antonio.
Ma la fiducia e l'ottimismo non fanno per me, li lascio a lui.
In questi giorni non riesco proprio a trovarli dentro di me.

Dimenticavo una precisazione: Antonio non era musulmano, né calvinista, né un fervente cattolico. Forse non credeva a nulla, ma sicuramente ci sperava, non foss'altro per l'ultimo segno della croce che si è fatto prima di scivolare in coma. Il primo gesto del genere che gli ho visto in compiere in tutta la mia vita.

martedì 19 febbraio 2008

Era mio padre

Vederlo morire è stato come assistere allo spegnimento progressivo di un utensile a batteria che si scarica. Lentamente il cuore si è fermato, insieme al suo respiro. E io ero lì, di fronte a lui o al suo corpo, ormai. Che fa un figlio allo spegnimento di suo papà? Mi sono alzato, sono andato dalle infermiere ad avvertirle con dei gesti semplici ma eloquenti. Poi ho assistito meccanicamente a una specie di commemorazione funebre, in mezzo ai malati ancora vivi, anche se per poco. Ho pensato che, se tutto fosse andato bene, sarei morto anch'io di malattia e mia figlia mi avrebbe guardato attonita, chissà, pensando che la vita sia tutta una fregatura. Come l'anziana di cui sopra.
Ora la vita scorre in maniera differente, cambiano nomi, ruoli, anche gli oggetti assumono un aspetto tetro. I suoi vestiti nell'armadio ora possono essere definiti come «appartenuti al defunto». Pertanto perdono del loro valore quotidiano e assurgono al ruolo dei ricordi. Attaccate ai tessuti devono essere rimaste alcune cellule di Antonio, piccole, invisibili, simboliche. E morte, anche loro. Un capello, una sciarpa in fondo a un cassetto, i calzini da rammendare. Le scarpe, che ricordano perfettamente i piedi che le hanno indossate. Qualcuno deve raccogliere tutti questi indumenti e decidere se tenerli, gettarli, regalarli. Me ne occupo io, ma mi sento un monatto. Quei pantaloni ripiegati sul mio avambraccio sembrano dei corpi esanimi che vengono spostati
pietosamente verso luoghi più consoni. Tra silenzi assordanti, pianti soffocati, imprecazioni sul destino crudele. L'ansia di organizzare il piccolo trasloco soffoca a tratti i ricordi di un'esistenza che saltano via come lingue di fuoco da una coperta che tenta di soffocarle. Spesso basta una piccola favilla a rianimare un doloroso incendio dell'anima. Dalla metafora alla sensazione fisica di bruciore non c'è tanta differenza in quei momenti.
Gli oggetti sono i nostri padroni. Ho in casa l'ultima saponetta utilizzata da mio padre. Stringo tra le mani l'ultima acqua di colonia. Si potrebbe impazzire pensando alle ultime cose che possiederemo. Chissà se mio padre poteva immaginare quale sarebbe stata la sua ultima doccia a casa, la sua ultima cena, l'ultimo programma visto in TV, l'ultimo giornale letto.

La vita continua, ma non proprio come prima. Tante decisioni da prendere al posto di mio padre. Molte delle quali estremamente dolorose. Approverà il mio operato? Ecco, penso a lui come se fosse vivo, come se potesse giudicarmi da un'altra dimensione. Certo si fa vivo nei sogni, ora triste, ora arrabbiato, ora muto. Mi dà i numeri, ma non gioco al lotto. Mi pone domande. Mi guarda. Urla. Piange. Mi parla di concetti senza senso. Ma ho studiato che i sogni sono proiezioni del vissuto, non è lui davvero. Anche se sembra più semplice credere alla seconda teoria. La mia esistenza si è svuotata di significato, si è irrigidita, disseccata, come un vecchio tronco spiaggiato. Una volta era un albero, ora è nudo, secco, abbandonato, solo. Milano, il capo, il lavoro: la loro bruttezza non ha più significato per me. Sono infimi rispetto al mio sguardo rivolto verso un orizzonte che vorrei scavalcare a tutti i costi.

lunedì 18 febbraio 2008

Era mio padre - Piccola escatologia quotidiana

Che cosa può scrivere un figlio su suo padre? Chi era? Chi avrebbe potuto essere? Quello che avrebbe potuto o voluto ancora dirgli?
Che cosa prova un figlio dopo la morte di suo padre? Come cambia la sua vita da quel momento?

Inizierei a togliere qualsiasi certezza a chiunque voglia credere nel paradiso: non esiste. Forse. Ma l'inferno sì, è qui, adesso.
Da piccolo una signora mi ha detto: “La vita è tutta una fregatura, caruccio mio”. Un anziano, in un'altra occasione, sospirava: “La gioventù, ah, quant'è bella”. Forse intendeva la sua giovinezza trascorsa. O forse era vagamente pedofilo.
Insomma, la vita è una buggeratura, la vecchiaia ancora peggio, la morte è certa. Da questi scarni dati sono sempre partite le mie riflessioni sull'aldilà. La favola che mi raccontavano in chiesa era un po' troppo bella per essere vera. Mi sono sempre chiesto: “Perché il mio Dio e non un altro?” Se il sentimento religioso è universale, il dio vale per tutti. Magari esiste solo nella mia testa. Sono frutto del caso? Strano, ma se non fosse così non c'è da stare molto allegri.
Un figlio si pone tante domande esistenziali su di sé, su suo padre e la propria prole. Soprattutto quando il proprio genitore se ne va davanti ai suoi occhi.

Torniamo ad Antonio, mio padre.
Dove sei? Accanto a me? Come gli altri morti, non puoi rivelare il segreto più bello dell'esistenza, il paradiso a sorpresa, quel posto che vedi solo se muori davvero. Altro che la “luce” di chi è stato in coma, ti riferisci al paradiso vero e proprio!
O forse sei ovunque?
Chi muore bambino che differente percezione ha del paradiso rispetto a un adulto? Che cosa rappresenta la tua tomba? Una consolazione per chi ti piange, un monito, un luogo sacro? E chi brucia i cadaveri? Come fa a piangerli, a comunicare con i propri cari a conservarne lo spirito, qualsiasi cosa esso sia? Antonio non mi risponde, deve mantenere il suo segreto, come tutti. Quando lo raggiungerò, anch'io gioirò per tanta meraviglia, ma dovrò tacere nei confronti di coloro che sono sopravvissuti. È il secretum secretorum (non quello attribuito ad Aristotele) o l'ennesima storiella consolatoria?