mercoledì 6 ottobre 2004

Le donne rumene e l’arte: i simpatici quadri 60x20.

Un viaggio in Romania non può prescindere da un’analisi delle belle ragazze originarie di quei luoghi. Non esistono posti in cui le donne siano in assoluto più belle di altre; tuttavia la popolazione femminile giovane di alcuni paesi assume dei comportamenti talmente differenti dai nostri da risultare, diciamo così, più visibile. E se è vero che alcuni di questi comportamenti ci aggrada particolarmente, è fondato il dubbio che ci faccia supporre l’esistenza del rovescio della medaglia.

Le ragazze rumene hanno generalmente una voce sottile, resa più simpatica dal forte accento orientale che infondono al loro italiano stentato. I pensieri sono espressi in forme discorsive molto semplici e si rivelano piuttosto ingenue quando si discute dei grandi dilemmi della vita. L’atteggiamento semplicistico e banalizzante nei confronti dell’esistenza è una caratteristica tipica di chi ne ha passate di tutti i colori. Le ragazze rumene non vengono meno a questa regola culturale. Semmai a un uomo italiano dovesse piacere una ragazza del luogo, lei stessa o le sue amiche gli chiederebbero la data del matrimonio. Senza tanti dilemmi. “Easy come, easy go”. Deve essere molto semplice trovare una moglie in Romania. Il divorzio si ottiene in sei mesi circa. La norma “Easy” mi sembra ben applicata. Per tutte e due le facce della medaglia.

Le donne sono delle sirene incantatrici per parecchi degli uomini, qui più che altrove: voce sensuale, corpi scultorei e in bella vista, capelli neri corvini e occhi felini e decisamente ammiccanti. Un supplizio di Tantalo anche per chi cerca di relativizzare e rendere in maniera distaccata la melliflua realtà che lo circonda. Non si riesce a non pensar male nell’ammirare dei simpatici quadretti che si incontrano fin dalla partenza, ovvero quelle strane ed eterogenee coppie formate da un italiano tra i cinquanta e i sessanta e una rumena tra i diciassette e i ventisei. Spesso le dimensioni di questi quadri sono piuttosto sbilanciate, i rettangoli appaiono di dimensioni strette e parecchio lunghe, diciamo 60 × 20. È difficile non cedere alla potenza dell’amore e alla sua capacità di superare qualsiasi barriera, anche quella dei quarant’anni di differenza. Piuttosto, è ammirevole la spaventosa forza di attrazione di questa giovanette verso i nostri penosi vegliardi, immolando l’anima e soprattutto il giovane corpo all’altare del benessere e del suo dio. Conosciuto con il nome di Euro.

Tornando alle coppiette molto “rettangolari”, talvolta è difficile non inquadrarle come un insieme padre-figlia. I reciproci gesti d’amore assumono un tratto prevalentemente paterno e affettuoso. L’enigma degli osservatori più scettici potrebbe consistere proprio nella simulazione di un eventuale e problematicao congiungimento tra due entità fisiche così dissimili. Elementari e scontate le insinuazioni dell’osservatore intorno alla veridicità di tante paroline sussurrate all’orecchio di “papà”. Tant’è, loro sono lì, di fronte a me, abbracciati. Lui un grassottello dagli occhi azzurri e vivaci, pochi capelli in testa, con un perfetto cerchio che mostra la pelata luccicante sotto i neon. Spiritosetto, voce sottile, toscano identico a Marco Messeri, con la stessa parlantina veloce, simple mind, apparentemente sempre a suo agio. La risposta italiana a un nerd, senza gli occhiali, però; uno sfigato cresciutello, magari già sposato e divorziato, con uno o due figli coevi alla sua fidanzatina. Lei bella sì, ma non bellissima, comunque un faro nelle tenebre se paragonata a lui. La guardo e sorrido della sua disgrazia. Lei mi vede. Si tiene ben stretto il suo tesoro, anzi lo “sponsor”, come dicono qui, giocando sul doppio senso di “sposo” e di “finanziatore”. È alta, leggermente in carne, il viso pulito, la carnagione chiara e vellutata. Le sopracciglia incorniciano con un’onda sinuosa due profondi occhi, talmente scuri che la pupilla sembra essersi mimetizzata nell’iride. Il taglio è decisamente rumeno, felino e un po’ spiovente, come gli abbaini di Sibiu. Rivolge i suoi occhioni in maniera dolce e distaccata, mantenendo la stessa espressione se si rivolge a un oggetto o a una persona. Un bel sorriso illumina il suo raggiante volto, sereno e leggermente ammiccante. Si accarezza i capelli con un gesto stanco e ripetitivo mentre sfoglia un pieghevole insieme a… Marco Messeri. Lei rivolge i suoi desideri al suo tutore in maniera continua, cambia spesso la mèta dei luoghi di vacanza descritti sul foglietto colorato. Non intende scegliere soltanto uno dei posti da vedere, si limita ad aggiungere una destinazione dietro l’altra. Il vecchietto, che sembra più anziano perché ricurvo sulla sua modesta statura, annuisce, promette, non discute mai, non osa contraddirla, la sua stellina. Seguito a guardarli con sufficienza, ma per lui non esisto nemmeno, la vecchia volpe! Mi sembra di vivere all’interno di una striscia di Milo Manara, nel triangolo lui-vecchio, lei-giovane, l’altro-giovane. Si alzano, lei si guarda un po’ intorno con aria distratta, lui farfuglia qualcosa e ridacchia. È ora di partire. Procedono. Sono una coppia buffa e sghemba. L'amore è cieco, almeno per uno dei due.

Scene più gustose di quella sopra descritte si possono vivere nei locali notturni. Quella che mi è rimasta più impressa si è svolta in un pub. Musica “commerciale” anni Novanta, pavimento in parquet lucidissimo color ciliegio, pareti e tetto in tono, luci soffuse, bicchierino con la candela su ogni tavolo a rischiarare dal basso i volti degli avventori. Ma niente di transilvanico. Nel mezzo della sala si trova un grande tavolo circolare con un signore che ha agevolmente superato i sessanta e due ragazze al seguito. Lui ha i capelli lunghi, candidi, un po’ spettinati quel tanto da conferirgli l’aria un po’ bohémienne e artistoide. È stravaccato sulla sedia, si gusta l’aria intrisa di fumo, finge di seguire il ritmo di canzonette che certamente non gli appartengono, nonostante siano un po’ datate. Tutta lo spettacolo appare come un fermo immagine tanto le persone conservano la loro solenne immobilità. Entrando mi volto verso le ragazze per guardarle meglio in volto. La prima è vestita in maniera giovanile, come si confà a un’adolescente della sua età. Castana, belloccia, dall’aspetto un po’ anni Ottanta, con le spalline imbottite e il trucco degli occhi dalle forme aggressive. Accanto le siede la biondina, ossigenata, capelli dal taglio dozzinale e peggio pettinati. Indossa una specie di top aderente lungo, direi una bizzarra maglietta a pelle di leopardo, di viscosa, che evoca delle atmosfere dei film soft porno di qualche decennio fa. Gonna nera e scarpette nere e lucide, messe in bella vista dalle gambe maliziosamente accavallate. Dei tre astanti è la “signorina leopardo” la figura che spicca maggiormente, a causa della sua triviale e maldestra appariscenza. L’uomo sembra essere orgoglioso della duplice dolce compagnia, siede con le due ragazzette compiaciuto come un alfiere che ostenti il suo stendardo in una parata. È sicuro di sé, realizzato, quasi fosse giunto al caffè del dopo pranzo. I tre sembrano leggermente annoiati, costretti alla parata senza troppa convinzione, giusto per fare qualcosa la sera. Ah! La forza dell’amore. Dalle mie parti più che al nobile sentimento in questi casi si pensa maliziosamente al detto del paio di robusti buoi...

Di fronte a tanta avvenenza congiunta ad altrettanto opportunismo l’Italiano attempato non ha proprio scampo: non si contano gli aneddoti di famiglie abbandonate, di fughe d’amore, diciamo così, di passioni che esasperano e fanno esplodere latenti conflitti domestici. Non mi sento di biasimare coloro che hanno condotto una vita mediocre e piatta, che si sono sposati senza troppa convinzione, che hanno trascinato un’esistenza anonima e piatta. E che si ritrovano in un paese di Bengodi, affascinati da queste illusorie ninfette profittatrici e desiderose di rimettere in sesto la propria vita. Né mi sento in grado di disapprovare il comportamento delle ragazze a cui la miseria ha rubato l’infanzia e che vogliono rifarsi nell’adolescenza. Una visione cinica del rapporto potrebbe mostrare una coppia che si regge tutto sommato in equilibrio: lei che si dà a un vecchietto, con la prospettiva che non dovrà sopportarlo per troppo tempo; lui che si concede gli ultimi barlumi della crepuscolare vita sessuale. Il primo ha la pecunia, lei ci mette l’amore, acquistano l’uno dall’altra due sentimenti posticci, barattano le diverse felicità e vivono attraverso una funzionale economia di guerra, dove ogni bassezza e ogni cinismo sono coperti dalla grande coperta dell’amore, vero o presunto. Un amore che si svolge nell’hortus conclusus della coppia, come se i due vivessero in una stanza dalle pareti a specchio e trasparenti all’esterno, dove gli altri guardano, sghignazzano, giudicano e pontificano senza che la coppia se ne accorga. E loro che si chiudono al mondo esterno dentro la complicità di amanti semi-clandestini. Pensando alla vanitas vanitatum omnia vanitas, aggiungendo un po’ di distaccato Panta rei e concludendo con un Oggi ci siamo, domani chissà, la ruota della vita continua a girare anche per questi amori sbilenchi, con buona pace delle famiglie abbandonate o degli amici ammiccanti e, diciamolo, anche un bel po’ invidiosi.


Il buio della notte nasconde gli innamorati. Almeno fino a quando non sorgerà il sole.


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Busie old foole, unruly Sunne,
Why dost thou thus,
Through windowes, and through curtaines call on us?
Must to thy motions lovers seasons run?


John Donne, The Sunne Rising.

martedì 5 ottobre 2004

2a puntata — Da Bucarest a Sibiu

Sibiu (accento sulla seconda “i”, Sibìu) è stata fondata dai Sassoni Transilvani: si chiama Hermannstadt in tedesco, Nagyszeben in ungherese, e Cibinium in latino. La “Villa Hermanii” prende il nome da Hermann da Norimberga nel 1160, che le ha dato, appunto, il nome germanico di “villa”, inteso come “città” (“stadt”).

La Transilvania è una provincia storica in cui si formò il nucleo del popolo romeno. Fu qui il centro dello stato dacico, che aveva la capitale nella città di Sarmisegetusa, dove i conquistatori romani vi stabilirono il loro centro amministrativo dei territori che occupavano, ai primi del secondo secolo dello scorso millenio, dopo le guerre contro i Daci. Alba Iulia è la città in cui il 1° dicembre 1918 veniva compiuta l’unione della Transilvania alla madre patria, realizzandosi in tal modo lo stato unitario nazionale romeno entro i suoi confini naturali. La Transilvania è stata sotto gli Asburgo, integrata nel regno d’Ungheria. Dopo la Prima Guerra mondiale (1920) fu unita alla Romania, che la perdette di nuovo a favore dell’Ungheria nel 1940, per riacquistarla nel 1945.

Come svariate città in Romania, e non solo, la città di Sibiu è composta da una parte “di sopra” (de Sus) e da una “di sotto” (de Jos). Questa duplicazione si ritrova nelle due piazze principali: la Grande e quella Piccola.

L’impressione generale che si trae dalla città è meno “transilvanica” di quanto non si pensi. Le colline che circondano la città, come già detto altrove, sembrano trovarsi nella campagna romana. I rilievi sono dolci, il fiume scorre sinuoso e con una certa pacatezza. Non sembrano certo le terre di Dracula; i Carpazi, in lontananza ricordano piuttosto l’Appennino umbro-marchigiano. L’atmosfera è bucolica, agreste, quasi ovattata.
La cittadina è, al momento, tutta un cantiere: ristrutturazioni, consolidamenti, puntellamenti, pavimentazioni. Immagino già il risultato: un centro storico da presepe vivente. I tetti spioventi e scuri, gli abbaini ondulati a forma di palpebra, conosciuti come “gli occhi di Sibiu”, l’unico piccolo vezzo per un’architettura semplice, essenziale, ma non banale. La passeggiata in città è piacevole, i suoi edifici pastello la fanno somigliare a una piccola Praga, i suoi imponenti bastioni la circondano come una morbida coperta, rendendo la sua forma simile a una donna in posizione fetale, un po’ grassottella, circondata da un piumino danese. Sembra di essere ovunque ma non in Transilvania o in Romania, tanto meno in Germania e neanche in Ungheria. Sibiu è la cittadina europea per eccellenza, potrebbe veramente trovarsi ovunque in Europa, è universale, una sorta di passe-partout, chiave epistemologica dell’Europa medioevale.
La presenza di numerosi studenti universitari la rende molto simile a Urbino o a Siena, un piccolo centro dove lo studio si unisce al tempo libero, rendendo piacevoli entrambi.

I ragazzi di oggi ben ricordano le atrocità della dittatura di Ceausescu, l’uomo cattivo che ha rabbuiato la felicità della loro infanzia e che ha vigliaccamente rubato loro la spensieratezza. Durante i racconti degli episodi più oscuri i loro occhi si fanno sottili e penetranti, spauriti e arrabbiati, la voce assume un crescendo di volume, le parole divengono concitate, strozzate, sibilate in faccia all’interlocutore, il viso si stringe in una morsa di odio profondo, il respiro affannoso rende meglio di qualsiasi altro gesto il senso di oppressione di quegli anni atroci. Anche la persona meno emotiva non può non provare un lungo e persistente brivido lungo la schiena di fronte agli episodi che raccontano con una fluidità incredibile. Si vorrebbe fuggire di fronte a quello che si è indelebilmente fissato nella memoria di questi ragazzi, ma l’altro ti inchioda, ti costringe ad ascoltare, a capire, a ricordare insieme a lui. Sembra di essere in mezzo a una tromba d’aria, il vento delle parole si fa teso, a raffiche, poi violento; spazza via con violenza tutti gli agi e le certezze in cui siamo vissuti finora. Arresti, pestaggi, sparatorie, morti, sparizioni. Ogni famiglia ha il suo dramma, il suo incubo, i suoi affetti tranciati via o, se è andata bene, sfregiati da quell’uomo da nulla, il loro piccolo e mediocre Hitler che con la sua impresentabile moglie ha condiviso una fine degna della sua statura morale. Il mio giovane interlocutore non ha neanche le lacrime per piangere le sue attese notturne per un po’ di latte, per i termosifoni accesi poche ore al giorno durante il rigidissimo inverno, per la sottomissione a un regime oscurantista e folle, per il sogno di un mondo normale sempre negato, per aver vissuto in un mondo talebano ante litteram. In Romania il tempo si divede in “Prima” e “Dopo” la Revolutia, quella vera, quella che ha cacciato via l’orco cattivo che portava il nome di Babbo Natale, ovvero Nicolae, figlio di contadini che ha conosciuto la galera per una decina d’anni, che ha spadroneggiato dal 1967 al 1989, data della violenta rivolta di Timişoara. “Prima” era il buio, l’incubo, il tunnel nero e senza fine in cui il Conducator ha cacciato l’intero Paese, costruendo una sorta di reggia a Bucarest, con saloni di migliaia di metri quadri di ampiezza ciascuno, i rubinetti d’oro, scintillanti cristalli, rutilanti specchi e ogni sorta di lusso. Alla faccia del popolo che crepava di stenti, di freddo, di botte o per le sommarie esecuzioni.

Dopo la tempesta, esce il sole, il viso dell’altro si rischiara, un gesto rapido e stizzoso della mano invita a cambiare argomento, non con cattiveria, ma con una decisione più levantina che balcanica. Il sole risplende, il vento è cessato. Ma i danni del fortunale sono tutti intorno e, soprattutto, dentro di me. È difficile sostenere lo sguardo di chi ha visto la morte in faccia, di quella stessa persona che ora è avida di vivere, di godere di ogni respiro, di ricevere ciò che gli è stato ingiustamente negato. Quella stessa persona che ti vede come un padreterno, come qualcuno che è di gran lunga più fortunato di lui, tu che sei in Italia, il Paese più bello e tra i più ricchi del mondo! È molto difficile fargli capire che l’Italia è sì bella, ma che racchiude molte complicazioni che in Romania possono sembrare assurde. Questo è sicuramente un punto difficile su cui andare d’accordo. Le movenze si fanno più distese, il volto incarna ora un forte attaccamento alla vita. Ogni parola è accompagnata dalle mani che sembrano voler sollevare delicatamente il significato di ogni frase come fanno i bambini quando tentano di portare in alto le bolle di sapone, sfiorandole con le palme delle mani rivolte verso l’alto. Ogni atto del corpo, soprattutto quelli femminili, è particolarmente studiato, dura a lungo, è sinuoso. I segni extra-linguistici sono molto importanti in tutta l’Europa orientale, ma molto marcati in questa terra: ogni gesto della mano, ogni flessione del corpo, ogni alzata di ciglio, ogni scrollata di spalle, tutti questi gesti sono delle vere e proprie integrazioni del discorso parlato. In questo lo straniero si distingue, nella mancanza di gestualità, nel concentrare tutta la comunicazione nella voce. La lingua si può imparare, il rumeno è un idioma neolatino, ma l’atteggiamento è irrimediabilmente segregato all’interno del patrimonio genetico di questa gente. Che ci ama, ci adora, ci idolatra, nonostante le cattiverie che qualche volta le rivolgiamo. Loro ci conoscono tanto bene quanto noi non li conosciamo affatto.

È venuto il momento di avvicinarci alla Romania, con calma, con dolcezza, con serenità, per apprendere, per capire e, non ultimo, per ricambiare, almeno in parte, il grande affetto che i rumeni nutrono per noi. Glielo dobbiamo, a ciascuno di loro.

1a puntata — Da Bucarest a Sibiu


Dopo il bellissimo ma asettico hotel Ibis, eccomi sul mezzo di locomozione per eccellenza: il treno.
L’impatto è forte, anche in prima classe; un viaggio adatto a persone certamente poco schizzinose. Dimenticate l’Eurostar, ma anche il diesel Pescara-Chieti. Solo l’onnipresente telefonino riporta le lancette dell’orologio avanti di sessant’anni.

La prima impressione è quella di un Paese che si stia svegliando all’improvviso, quindi con una certa irritazione, da un lungo sonno. Alcune persone venderebbero l’anima per avere tutto e subito di ciò che è stato loro negato per lunghissimi anni. E c’è da giurare che l’abbiano già venduta, la loro anima, senza però ottenere quello che speravano. Altri sembrano essere pervasi da un misticismo intriso da cristianesimo ortodosso, animismo e chissà quale altro rito dell’antica Dacia. Un Paese composto da persone oscillanti, che rasentano lo schizoidismo nel voler mostrare la propria ricchezza e le proprie povertà. Perché queste ultime sono numerose, la ricchezza è una sola. Spesso non quantificabile con la moneta, ma costituita dalla grande magnanimità di questo popolo.

È la prima volta che provo la forte sensazione di essere straniero, pur non indossando alcun abito, né compiendo gesti tali da far supporre la mia origine. Dev’essere lo sguardo, il modo di camminare o chissà che cos’altro. Non mi sembra di essere così differente dal resto della popolazione. Il fatto più notevole resta lo sguardo talvolta inquietante che le ragazze mi rivolgono: occhi fermi, sicuri, perentori e anche un po’ interrogativi. Sembrano voler sottolineare il fatto che quello sguardo sia proprio rivolto a me. Minaccia? Promessa? Credo di aver trovato una risposta nella biologia: la funzione protettrice dell’uomo nei confronti della sua famiglia. Forse è proprio questa caratteristica che la ragazza rumena reclama dal suo protettore, effettuando, in maniera più diretta, la stessa selezione che il maschio effettua per scegliere la sua compagna. Chissà. Non ho trovato nessuna risposta convincente, neanche in seguito. Gli sguardi dei profondi occhi neri restano un grande mistero, insoluto per ciò che mi riguarda.

Il treno procede in mezzo alle sterpaglie come se funzionasse con il pilota automatico, sempre alla stessa, lenta ed esasperante velocità. Il finestrino dello scompartimento resta aperto finché la mia vicina, una ragazza che si è fatta bella per incontrare il suo fidanzato lontano, non decide che è troppo freddo. Così lo chiude. C’è un tanfo di vino misto a olio per ingranaggi, qui dentro. Il treno somiglia vagamente ai modelli italiani degli anni Sessanta del secolo scorso, con qualche rifinitura in meno.

Ho due pensieri che mi arrovellano al mente e tutti e due iniziano con la stessa frase: “Come dev’essere…” Mi domando quanto sia rigido l’inverno da queste parti e quale dovesse essere l’atmosfera al tempo della dittatura. Non oso immaginare la combinazione delle due disgrazie! Il mio vicino afferra una bottiglia, l’etichetta “Bergbier” non lascia spazio a dubbi circa la bevanda: un litro e mezzo di birra. La vedesse un cittadino di Sua Maestà… Il signore in questione, nel silenzio totale degli astanti, trae cinque profondi sorsi e la chiude. Non sembra particolarmente soddisfatto della “piccola” bevuta. La donna che siede accanto, che sembra sua moglie, lo guarda senza parlare, facendo intendere che avesse commesso una qualche scortesia. Lui chiede con un monosillabo, che piuttosto definirei un mugugno, il motivo dell’occhiataccia. La donna gli risponde, le palpebre socchiuse, con una mezza smorfia che dovrebbe significare che il discorso è chiuso lì. Successivamente la donna ritiene di dover bere anche lei, visto che il ghiaccio è rotto. Una scena incomprensibile, forse suscitata dalla mia presenza che sembrava imbarazzare notevolmente i presenti, visto che stavo prendendo appunti, evidentemente basati sulle impressioni che traevo da loro stessi.

Il treno effettua una fermata in una stazione senza nome, caratteristica che non manca nel resto della rete ferroviaria rumena. Anche a Bucarest in metropolitana ci si sente ciechi, vista la mancanza di segnalazione delle stazioni. Il Paese non è pronto ad accogliere dei turisti veri e propri e non lo sarà finché non ci saranno dei cartelli che segnalino almeno i luoghi più importanti. È proprio il mio primo viaggio da viaggiatore, per di più in Europa.

Ripenso alle due ragazze che sono venute a prendermi in aeroporto: Gabriela e “l’altra”, di cui ho dimenticato il nome. La prima, loquacissima, con un apparente desiderio di far bella figura a tutti i costi. L’altra è più mite, decisamente meno nella guida. Gabriela parla come un fiume in piena, anzi come un nervoso torrente che si getta con irruenza in mare. Le parole fuoriescono a tratti, nervosamente, interrotte da squillanti risate, talvolta così profonde che la sua esile corporatura ne viene completamente scossa. Arrivata al punto di tossire interrompe la sua ilarità e torna seria seria. Dopo una mezz’ora decide che è meglio togliersi gli occhiali, forse per rendersi più simile alla fortunata gente rumena che sembra essere immune ai difetti visivi. Pochissimi indossano degli occhiali da vista e non credo che le lenti a contatto siano così diffuse, visto il costo e la facile sostituibilità con dei più economici occhiali.

In tutti i paesi dell’Europa Orientale che ho visitato la percezione del pericolo è molto diversa dalla nostra. Agli occhi dei “levantini” dovremo sembrare dei paranoici. Perché non poter prendere il treno in corsa, perché chiudere le porte, perché non poter attraversare i binari o, ancora, perché utilizzare delle esagerate precauzioni? Sono solo alcune dei tanti interrogativi che in Romania non ci si pone.

Questo Paese sembra trovarsi in quella fase del risveglio in cui non tutto il cervello è ancora in piena attività: gli occhi socchiusi, i pensieri opachi e, soprattutto, una grande e attonita domanda: “Ma che ci faccio io qui”? Gli occhi dello straniero vedono in maniera diversa le stesse cose; è forse questo che fa la differenza ed è per questo che egli trae delle impressioni forti dei Paesi che visita. In questo momento mi sento un po’ il giudice di un intero popolo di cui dover analizzare ogni singolo gesto. Ancora ho capito poco.

Una ragazza si sporge dal finestrino del treno di fronte e mi urla qualcosa che non riesco a capire. Avrà sì e no diciassette anni, ma il coraggio non le manca. I suoi occhi, per pochi secondi, mi guardano, anche se sembrano piuttosto toccarmi, quasi schiaffeggiarmi. Accompagna le sue parole con un sorriso di chi la sa lunga.
Il treno riparte, scorre un paesaggio che somiglia alla campagna romana senza vestigia: rovi, erba verdissima puntellata da esili e torreggianti erbacce; pioppi; olivastri, almeno così sembrano; acacie; e una gran quantità di alberi a foglie cedue. Il tutto per la maggior parte incolto. Una sorta di infernale paradiso, un po’ monotono. Ogni tanto, vicino le città, qualche fabbrichetta che sembra abbandonata, ma che è in funzione, sia pur a modo suo. Con buona pace degli ecologisti abbondano gli scarichi e le strutture strabordanti di amianto. Il cielo è limpido, sembrerebbe l’inizio di settembre sulle colline del Centro Italia. Invece siamo nella Romania più interna e profonda. Povera ma bella, come le sue donne.